30 June 2006

Anarchy















Anarchy in the UK, SEX PISTOLS, "Never Mind The Bollocks… Here's The Sex Pistols", 1977, Virgin Records

Right! now ha, ha

I am an anti-Christ
I am an anarchist,
don't know what I want
but I know how to get it.
I wanna destroy the passer by
'cos I wanna be anarchy,
Ho dogs body

Anarchy for the UK
It's coming sometime and maybe
I give a wrong time stop a traffic line.
Your future dream is a shopping scheme
cause I wanna be anarchy,
It's in the city

How many ways to get what you want
I use the best I use the rest
I use the enemy.
I use anarchy
'cause I wanna be anarchy,

Its the only way to be

Is this the MPLA
or is this the UDA
or is this the IRA
I thought it was the UK
or just another country
another council tenancy.

I wanna be an anarchist
(oh what a name)
And l wanna be an anarchist
(I get pissed destroy)

Opositude











La creatività è sociale

Creativitàugualesociale

Nella lingua italiana l’aggettivo creativo proietta un’ombra di negatività sul sostantivo che accompagna: si parla ad esempio di finanza creativa (per indicare gli scandali finanziari), o di politica creativa (quando si scambiano le idee con le azioni di marketing che le accompagnano), oppure cucina creativa (giudizio tombale per sancire un pranzo estroso che ti lascia leggero...) e alla fine di lavoro creativo, ovvero della meravigliosa ma sottopagata e non considerata attività di designer, architetti, stilisti...

In compenso politici, industriali, banchieri, universitari (e bottegai e nani e ballerine) ne parlano in continuazione.
La creatività paga.
Forse perchè immaginano o sperano che la creatività possa comporre un’equazione ovvia

CREATIVITA’ = DENARO

Io penso invece che la creatività non si misuri solo a denaro.
Quando la creatività si esprime nel territorio/territori non si manifesta spesso nei termini di un’invenzione quanto, piuttosto, diventa visibile attraverso un processo di esplorazione, di scoperta che si autorinforza (e diventa vision, strategia..) mano a mano che se ne riconoscono i segni evidenti (i segni dei processi dell’innovazione).
Occorre dunque esplorare le cose, le esperienze, le situazioni, i luoghi, con un atteggiamento di ascolto, ricerca, immersione.
Creatività significa riconoscere, metabolizzare, trasformare e produrre una combinazione inedita di questi ingredienti rendendoli intelleggibili, interessanti, legittimati e comunicabili.
Questa è la creatività che, a mio parere, lega persone e territori.
Meticcia, interconnessa, multiforme.
Usata dalle persone per le persone.
Insomma.

CREATIVITA’ = SOCIALE

Moleskine


















La mia moleskine concentra le tracce del mio pensiero. E' un ausilio semplice, non tecnologico alla creatività

Concept design

Weird tales














mere...mere...mere...mere...
mere...mere...mere...
mere...mere...mere...mere...
mere...mere...
mere...mere...mere...mere...






Crazy

In a church, by the face,
He talks about the people going under.
Only child know...
A man decides after seventy years,
That what he goes there for, is to unlock the door.
While those around him criticize and sleep...
And through a fractal on a breaking wall,
I see you my friend, and touch your face again.
Miracles will happen as we trip.
But we're never gonna survive, unless...
We get a little crazy
No we're never gonna survive, unless...
We are a little...
Cray...cray...cray...
Crazy yellow people walking through my head.
One of them's got a gun, to shoot the other one.
And yet together they were friends at school
Ohh, get it, get it, get it, get it no no!
If all were there when we first took the pill,
Then maybe, then maybe, then maybe, then maybe...
Miracles will happen as we speak.
But we're never gonna survive unless...
We get a little crazy.
No we're never gonna survive unless...
We are a little...
Crazy...
No no, never survive, unless we get a little... bit...
Oh, a little bit...
Oh, a little bit...
Oh...
Oh...
Amanda decides to go along after seventeen years...
Oh darlin...
In a sky full of people, only some want to fly,
Isn't that crazy?
In a world full of people, only some want to fly,
Isn't that crazy?
Crazy...
In a heaven of people there's only some want to fly,
Ain't that crazy?
Oh babe... oh darlin...
In a world full of people there's only some want to fly,
Isn't that crazy?
Isn't that crazy... isn't that crazy... isn't that crazy...
Ohh...
But we're never gonna survive unless, we get a little crazy.. crazy...
No we're never gonna to survive unless we are a little... crazy...
But we're never gonna survive unless, we get a little crazy.. crazy...
No we're never gonna to survive unless, we are a little.. crazy...
No no, never survive unless, we get a little bit...
And then you see things
The size
Of which you've never known before
They'll break it
Someday...
Only child know...
Them things
The size
Of which you've never known before
Someday...
Someway...
Someday...
Someway...
Someday...
Someway...
Someday...
Seal, "Crazy" in "Seal", 1991, Sire Records

Mi coche es fantastico












My SUBARU rules... a good piece of design

Tre allegri ragazzi

Madeleine

Una ricognizione dello stato dell'arte

AVANGUARDIA ITALIANA
Esperienze a confronto della generazione emergente del design italiano. Un prologo


L’Italia è stata storicamente considerata - assieme a paesi come Svezia e Danimarca, Germania e Inghilterra - come il paese del design: Ovvero il paese in cui le merci, il sistema produttivo, le competenze, le imprese, le professionalità e anche la vita quotidiana, parlavano il linguaggio del design.Una storica relazione che vedeva collegate, in un tutt’uno, la tradizione dell’arte decorativa, l’architettura, la presenza di capacità produttive artigianali e imprenditoriali nei settori dei beni per la casa e per la persona (l’arredamento, la moda...) diffuse nei differenti sistemi produttivi locali specializzati - in una felice relazione tra il fare industriale e il pensare progettuale.Qui si è sviluppato quello che definiamo, alla luce di un’interpretazione recente, come un sistema del design[1]. Fatto di professionisti, imprese, eventi, istituzioni, riviste, fiere, scuole.C’è stata una generazione di progettisti che ha caratterizzato il periodo eroico del design italiano a partire dagli cinquanta e che si è poi la consolidata come la generazione storica dei maestri del design italiano[2].Questa generazione è stata consacrata da una presenza costante sulla scena nazionale e internazionale in termini di prodotti, di critica, di visibilità.Attraverso la crescita di queste individualità, il design italiano, inteso come fenomeno nazionale caratteristico, si è rappresentato e consolidatoQuesti individui sono assurti al rango di esempi: maestri dal fare, maestri del pensare. Ma, nel corso degli anni, progressivamente, quest’Olimpo di Dei del Progetto si è ridotto. Flebilmente l’agorà del design si è andata via via spopolando.Non sono arrivati i giovani eroi. I giovani semidei. Non è ancora arrivata, non si è affermata una nuova generazione di progettisti. O forse no? Dopo le innumerevoli iniziative di ricerca storiografica caratterizzate dal tentativo di costruire una cronologia e raccontare i personaggi dell’età dell’oro del design italiano, abbiamo assistito a un sostanziale vuoto narrativo.Questo vuoto definisce un compito che si pone a partire da questo numero: presentare in maniera storiograficamente integrata, per la prima volta[3], l’insieme dei protagonisti del (ormai non sempre…) giovane design nazionale. Come ci accosteremo a questo compito? Se usassimo una metafora cinematografica, ma anche esperienziale, potremmo dire che useremo un taglio narrativo alla Robert Aldrich.Come lui ci chiederemo Che fine ha fatto Baby Jane?Che fine fanno i giovani e meno giovani designer italiani? Quale storia li accompagna? Esiste un finale rivelatore?Attiveremo un’inchiesta che ci faccia scoprire i profili, le storie personali e le esperienze del giovane design italiano di questi ultimi dieci anni.Sarà un tentativo di rappresentare quella che vorrei definire, tra il serio e il faceto, avanguardia italiana.Avanguardia che non si connota in senso classico come idea di superamento di ismi, stili, pensieri. Dal mio punto di vista essa si caratterizza come una visione alla Buzzati: se guardiamo dalla Fortezza, le persone che racconteremo sono quelle che alla fine sono... semplicemente arrivate.Certamente non nel senso contemporaneo e un po’ grandefratellesco dell’apparire, dell’essere mediaticamente riconosciuti (anche se alcuni di loro lo sono, ormai). Non c’è stato infatti, in questo caso, lo sfondamento; non c’è stata l’entrata in scena della nuova schiera. Solo alcuni successi sporadici.E noi vorremmo capire l’incapacità, almeno in questo momento (e fatta eccezione per alcune individualità e situazioni) di rappresentarsi anche all’esterno del Sistema Italia. Di assurgere con carisma e glamour all’interno dei circuiti della notorietà e del pieno apprezzamento internazionale.Vorremmo capire cosa sta succedendo e, se possibile, il come e il perchè di quanto sta avvenendo. Cercheremo di costruire un primo racconto non sistematico e un primo commento critico su una serie di individualità che hanno avuto tratti comuni, scambiato esperienze, condiviso visioni e modi del progetto.Vorremmo realizzare, insomma, una sorta di primo censimento, un repertorio sintetico di situazioni individuali per iniziare un’esplorazione critica e storica più approfondita su quella che potremmo definire come la nuova generazione. L’obiettivo rimane quello di far emergere la straordinaria capacità del design italiano di esser ancora una volta avanti.Nel senso di poter affiancare, in maniera rinnovata e anticipatrice, la capacità di gestire il prodotto alla capacità di impegnare la mente nella costruzione di nuove visioni e sensibilità.Questa attitudine ha forse trovato il suo limite nella scarsa capacità di comunicare e nella relativa sordità di alcuni soggetti istituzionali e d’impresa del sistema design che non hanno saputo vedere in questi giovani protagonisti una risorsa, un patrimonio nazionale di creatività e intelligenza da tutelare. Questi i giovani che proveremo a raccontare: Azzimonti, Becchelli, Bortolani, Contin, Cos, Damiani, Fioravanti, Gumdesign, Iacchetti, Joe Velluto Design, Marelli, Mirri, Nichetto, Paruccini, Pezzini, Ragni, Ulian, Varetto, Zito e ancora 99IC, Busana, Maggio, Studio X, Nigro, Deep Design, Graffeo... e tanti altri


[1] Si vedano: Bertola P., Sangiorgi D., Simonelli G.(a cura di), Milano distretto del design, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2002; Stefano Maffei, Giuliano Simonelli (a cura di), Territori del design. Made in Italy e sistemi produttivi locali, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2002; Francesco Zurlo, Raffaella Cagliano, Giuliano Simonelli, Roberto Verganti (a cura di), Innovare con il design, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2002
[2] Stiamo parlando di figure quali Achille Castiglioni, Joe Colombo, Bruno Munari, Gio Ponti, Marcello Nizzoli, Franco Albini, Marco Zanuso, Vico Magistretti, Ettore Sottsass, Enzo Mari, Andrea Branzi, Aldo Rossi, Alessandro Mendini, Gaetano Pesce, dei grandi designer automobilistici come Giacosa, Pininfarina, Bertone, Giugiaro, per arrivare a Michele De Lucchi, Alberto Meda, Denis Santachiara, Antonio Citterio.
[3] Anche se, in realtà, sono esistite ricerche personali in tal senso che hanno perlomeno illuminato non sistematicamente questo tema: si vedano in questo senso i percorsi di racconto e documentazione di alcuni gironalisti come Marco Romanelli, Virginio Briatore, Beppe Finessi, Cristina Morozzi

Ognuno ha un'identità pixelata

29 June 2006

Una dichiarazione di poetica


The Clash, copertina LP "London calling", 1979, CBS Records_foto di Penny Smith

Passages.
Del design, della critica, del situazionismo, della controcultura.


Please could you stop the noise, I'm trying to get some rest
From all the unborn chicken voices in my head
What's that?
What's that?
When I am king you will be first against the wall
With your opinion which is of no consequence at all
What's that?
What's that?
Ambition makes you look pretty ugly
Kicking and squealing gucci little piggy
You don't remember
You don't remember
Why don't you remember my name?
Off with his head, man
Off with his head, man
Why don't you remember my name?
I guess he does
Rain down
Rain down
Come on rain down
On me
From a great height
From a great height
Height
Height
That's it sir (Rain down)
You're leaving
The crackle of pig skin (Rain down)
The dust and the screaming (Come on rain down on me)
The yuppies networking
The panic, the vomit (from a great height)
The panic, the vomit (from a great height)
God loves his children
God loves his children, yeah
(Radiohead, Paranoid Android, in “Ok computer”, 1997, Capitol Records)


Dobbiamo scordarci gli anni Ottanta. E anche degli anni Novanta. La Thatcher e Berlusconi. Il secondo millennio appena cominciato avanza.
Una rivista inizia a parlare di design.
L’ennesima.
Dentro al mare magnum della produzione di informazioni che genera, come direbbe Don De Lillo, un rumore bianco.
La mancanza di un pensiero (e del famoso dibattito…) che aiuti a discutere, orientarsi, a scegliere, a introdursi in mezzo al cumulo dei detriti pubblicistico/pubblicitari.
L’assenza di un orizzonte di senso interpretativo.
La necessità di pensare la rivista come un palcoscenico a là Benjamin: un cantiere di osservazione e di scrittura aperto.
L’idea di un work in progress che indaghi i tempi nuovi. Il primo secolo.
Andando a cercare le radici, i prodromi. Ciò che è stato e ciò che sarà.
Come Walter Benjamin tentando di ricostruire un senso, anche frammentario, dalla presentazione e giustapposizione di categorie fenomenologiche ed esistenziali.
Come Benjamin cercando di individuare e descrivere i nuovi Passages. Le nuove forme; intese nel senso dei nuovi luoghi, dei nuovi umani, delle nuove esperienze, delle nuove culture (im)materiali.

Propongo di utilizzare per questo uno sguardo critico neo-situazionista.
Critico, intendendo critico nel senso alto, ovvero uno sguardo libero che cerca di individuare rabdomanticamente il nuovo. E che, oltre a presentarlo, lo definiscano.
O forse, più prudentemente, che si prenda il compito di grattare via il make up, il fondotinta comunicativo di una realtà fatta ormai di simulacri.
Come Philiph Dick. Come l’androide paranoico dei Radiohead. Stanco di assistere alla deriva della società delle merci. Ma consapevole allo stesso tempo che ne è prigioniero. E che non può evadere. Niente fuga. Ma anche niente inganno.
Guardando il panorama degli artefatti, dei beni materiali l’affermazione che possiamo fare è paradossale: l’abbondanza li nasconde.
Essi non esistono più. O almeno non sono importanti nel senso della loro materialità, ma funzionano piuttosto come attivatori semantici, simbolici, comunicativi; snodi immateriali della nostra esperienza.
Sono soggetti antropologici prima che oggetti di studio. Dotati di una vita propria.
Agiscono in un mondo che vediamo con occhio situazionista, come visione radicale di un mondo derealizzato e pluralizzato di masse atomizzate che non hanno più grandi narrazioni in grado di salvarle.

Come dice il situazionismo, è impossibile sconfiggere l’irreale. Lo si può solo narrare. O cortocircuitare comunicativamente. Realizzare il degagement. Agire duchampianamente cercando di intravedere il backstage. Il lato nascosto.

Oppure si devono cercare i passaggi difficili, i lati inconsueti, la ricerca concettuale, l’originalità, la marginalità.
Cercando di rappresentare un punto di vista differente, alternativo attraverso un mix atipico di interviste, pezzi critici, profili di oggetti o progettisti, presentazione di eventi o mostre.
Caratterizzando il commento con un sano spirito punk.
Punk inteso in senso di controculturale, di scomodo, di non ossequioso e stereotipato. L’idea è quella di dar voce a tesi e personaggi scomodi, che dicono cose senza peli sulla lingua.
Vogliamo corroborare questo con la scoperta di luoghi di design alternativo e/o tacito che possono essere rintracciati in mille discipline: food, fotografia, letteratura, musica.
Vorremmo interessarci all’attuale. Non all’attualità.