VERSO UN’ECONOMIA FINZIONALE. IL DESIGN DI FRONTE ALLA CULTURA (IM)MATERIALE CONTEMPORANEA
1. La produzione e il consumo del simbolico
I processi di cambiamento del contesto originario in cui cultura e bene culturale vengono prodotti costituiscono a mio parere il punto di partenza per immaginare una discussione centrata sul tema della valorizzazione dei beni culturali. Non possiamo infatti a mio parere parlare di design, ovvero di intervento progettuale in questo campo se, oltre a considerare una visione classica e definitoria del concetto di bene culturale, non avanziamo nella direzione di una comprensione dei meccanismi di trasformazione epocale delle loro regole di produzione. Mia intenzione è deliberatamente quella di provocare un dibattito, nel senso di immaginare l’esposizione e la discussione di una tesi provocativa che spinga la riflessione disciplinare al di là delle semplici considerazioni di campo operativo. Il problema si pone a mio avviso nella dimensione originaria della relazione tra cultura e merce. In questo senso la realizzazione della saldatura completa tra questi due termini rappresenta proprio la tesi fondamentale di questo contributo. A mio parere infatti sia le forme alte sia le forme basse di produzione di cultura e merce realizzano uno spiazzamento di quello che è l’approccio tradizionale usato anche dalla disciplina. L’annullamento di queste differenze corrisponde anche infatti all’annullamento (o meglio al cambiamento) che è necessario operare all’interno dei campi dell’educazione, del progetto, della valorizzazione e del consumo dei beni culturali. La caduta contemporanea dei confini tra molte discipline canoniche (arte, architettura, scrittura, design tradizionale..) e quelle che potremo definire come nuove (comunicazione, web...) crea uno spazio d’azione fluido, liquido se lo dicessimo alla Bauman, in cui occorre di nuovo capire il ruolo della nostra disciplina. Al contrario dell’intenzionalità della ricerca, che cerca di costruire sin dalla proposta iniziale una piattaforma di obiettivi come: “...definire l’apporto specifico che il sistema di competenze professionali inerenti la materia del design (pratiche e conoscenze codificate) può offrire al patrimonio dei beni culturali per individuare strategie, metodologie e strumenti di progetto in grado di concorrere alla loro valorizzazione e promozione e di aumentarne i fattori di fruibilità...”, la mia proposta si muove invece dall’idea di sviluppare in questo saggio un tentativo di comprensione generale di come le dinamiche di produzione e consumo di cultura e merce definiscano un nuovo campo di analisi fenomenologica che va sotto il nome di economia finzionale. Come sostiene Appandurai:
“...la teoria implicita in questo libro ( Modernità in polvere, ndr.) identifica nella comunicazione di massa e nella migrazione i due principali e interconnessi elementi diacritici, e studia il loro effetto combinato sull’opera dell’immaginazione in quanto tratto costitutivo dell’identità moderna...” [Appandurai, 2001; p. 22]
L’idea di ragionare della costruzione di un campo globale del simbolico , diviene (sulla scorta di quanto affermato da Bourdieu e ripreso da Carmagnola) il fuoco di una rappresentazione tangibile del sociale, degli attori, dei loro valori e stili di vita, che abilita una pratica in cui queste materializzazioni del simbolico possono essere distribuite e proposte per un consumo alla scala globale.
Come sostiene Falk infatti la produzione di massa (assieme alla crescita degli strumenti della comunicazione)
“...rende possibile il consumo imitativo di rappresentazioni materializzate. Attraverso il consumo [...] il consumatore si auto-identifica con lo status, il lifestyle o l’identità sociale che l’oggetto rappresenta e sintetizza...” [Falk, 1997: p. 121; cit. in Carmagnola, 2006: p. 14]
Carmagnola concorda con questa visione affermando che: “..il simbolo si materializza in merce, la merce si spiritualizza o si smaterializza in simbolo...”.
Il risultato di questa affermazione è che possiamo considerare il processo di creazione, trasformazione e diffusione del simbolico come integralmente annesso alla sfera del capitale culturale. Le conseguenze per il nostro campo d’analisi sono presto dette: accettando di valutare un approccio d’analisi siffatto e accettando anche l’ipotesi territoriale di Rullani secondo cui (Rullani, 2004), come sostiene Villari
“...sono i valori, le tradizioni, le memorie, il fascino è ciò che in maniera intangibile accresce il valore (in sé e percepito) del bene culturale. L’intangibilità non è però sinonimo di evanescenza, ma è fattore rappresentativo di ciò che, citando Rullani, può essere definito come un “sistema organizzato” in grado di produrre “emozioni, partecipazione, felicità” attraverso artefatti in grado di essere “riconoscibili, suggestivi, ricchi di qualità emotive e comunitarie”...” ci renderemo subito conto che la questione che la commistione tra produzione/consumo di questo capitale culturale diviene l’elemento centrale su cui il pensiero disciplinare deve esercitare un’attenzione particolare...”
avremo per D.Cult un tema di riflessione centrale.
Partendo dal presupposto che il processo di valorizzazione dei beni culturali sia strettamente correlato a quello dell’esperienza dell’utente, dovremo quindi comprendere con chiarezza (per quanto possibile) la questione del consumo culturale e la questione, come direbbero Toffler o forse anche Vanni Codeluppi o Rifter, della prosumption.
2. Il bene culturale quale elemento dinamico. La dimensione dell’economia finzionale
Non possiamo dunque più immaginare di comprendere la relazione cultura-processi di valorizzazione-progetto se non ci soffermiamo un attimo su di una questione fondamentale: può il nostro paese riuscire ad attuare un processo integrato, avanzato, contemporaneo di consolidamento, protezione, valorizzazione di quello che è il proprio patrimonio di beni culturali se non mette a fuoco qual è la cornice fenomenologica è in cui questo processo è inserito?
Se non capisce insomma qual’è il DNA specifico che sovrintende a un possibile gesto di progetto che modifichi, trasformi questa realtà?
Viviamo o no in quella che Fulvio Carmagnola definisce come una fiction economy o economia finzionale?A nostro parere la risposta a questa domanda è positiva. Se partiamo nella nostra argomentazione da un’analisi delle caratteristiche dell’economia contemporanea vedremo che essa mescola cultura, conoscenza, arte e merce…
In essa le componenti materiali e immateriali, reali e virtuali, formano un nodo inestricabile che non è possibile separare con vecchi proclami realisti-materialisti.
Le cose _ed anche i cosiddetti beni culturali_ non esistono quindi solo in un senso di reale materiale.
Esistono anche in un circuito percettivo-simbolico-comunicativo in cui avviene un processo di trattamento e scambio che non è più solamente simbolico-interattivo ma anche certamente e pesantemente compreso in una dimensione economica, inestricabile dal resto. All’interno di uno spazio come questo si ridefinisce l’ipotesi di costruzione del valore (di nuovo economico e culturale).
La genealogia speculativa su questo tema proposta da Carmagnola si apre con un incipit profetico di Gillo Dorfles (Dorfles, 1965) :
“...E’ un errore continuare a credere che “arte” sia soltanto quella che si venera nei musei o nelle sale da concerto, mentre oggi l’arte [...] è proprio quella che viene diffusa dai mass-media e che viene prodotta dai sistemi industriali [...] è un errore non dare la dovuta importanza ad alcuni dei fattori dominanti nell’attuale situazione artistica come: la rapidità del consumo, l’obsolescenza, l’usura delle forme e delle immagini e il valore simbolico di tali forme...”
E’ quello che pensiamo anche noi: e che forse dovrebbero pensare tutti quelli che si avvicinano a un progetto che implica il cambiamento della componente simbolico-interattivo-economica-comunicativa di un bene culturale.
Se infatti immaginiamo il bene culturale con una chiave estrema, equiparandolo in tutto e per tutto a un sistema-prodotto, allora ci renderemo conto che gli aspetti interpretativi che sono invecchiati e devono certamente cambiare sono quelli che, nel processo classico di produzione di beni e servizi, definiscono la forma del prodotto e della sua relazione con l’utente e della sua mercificazione all’interno di un circuito della distribuzione. Insomma deve essere rianalizzata la componente legata ai processi di scambio relazionale, produttivo, sociale ed economico che guida la creazione di processi e prodotti legati al mondo dei beni culturali.
“...La componente immaginaria o finzionale dei prodotti è diventata una parte strutturale del loro valore economico, così come l’intelligenza sociale, o la mente sociale, è diventata una parte fondamentale del processo di produzione. Il risultato, dal punto di vista del prodotto, è una configurazione che definiamo merce immaginaria o finzionale. La rete della comuicazione globale, di cui tanto si parla, è l’ambiente attivo che permette sia i flussi globalizzati della produzione postfordista, sia quelli che trasportano le favole delle grandi brand multinazionali e che innervano le figure narrative del cinema, dei videogame, degli spot, dei videoclip e costituiscono il paesaggio che l’antropologo Arjun Appandurai ha definito “mediascape”...” (Carmagnola, 2006; 6)
In questo senso è importante immaginare che il ruolo del design come disciplina che sovrintende la relazione tra campo del materiale e campo del simbolico dovrà effettivamente occuparsi sia della forma e degli aspetti materiali dei processi di produzione dei beni culturali – campo usuale della disciplina – ma anche dei processi di comprensione delle logiche profonde che ne guidano le logiche di distribuzione.
Insomma quel che stiamo cercando di confutare è che discutere di statuto dei beni culturali significa affrontarne anche la questione in termini di costruzione di un modello interpretativo di economia politica.
Carmagnola, aggiornando la seminale ipotesi dorflesiana sostenuta in Simbolo, Comunicazione, Consumo sostiene che:
“...Quella facoltà creativa, da sempre attribuita all'immagine, oggi forse è destinata a lasciare il posto a un diverso impulso: quello appartenente a un'economia fondata sulla grande corrente massmediatica; sicché la dimensione estetica e quella economica finiscono per unificarsi, conferendo un valore «assiologico» —dunque non solo economico — a molti prodotti un tempo non considerati «artistici», ma altresì attribuendo all'arte «pura» una valenza economica già in partenza da prendere in considerazione. E, infatti, solo perché rivestiti da valori immaginativi e simbolici, spesso anche oggetti «anestetici», o addirittura «antiestetici», possono atteggiarsi a opere d'arte, e tante opere dei nostri tempi sono assunte nell'empireo estetico soltanto perché divenute fonte di valore economico e insieme di una componente simbolica...” (Dorfles, 2006)
Egli arriva quindi a definire un’ipotesi precisa per nominare il tipo di circuito simbolico-economico che nasce da questa condizione:
“...L’ipotesi [...] è che il simbolo e il simbolico, trasformati in immagine e immaginario, siano diventati la componente specificamente estetica che contribuisce al buon funzionamento dell’attuale economia. Potremmo di conseguenza definire l’economia attuale sia come immaginaria o finzionale.
Definisco economia finzionale come quella situazione nella quale i prodotti dell’immaginazione (fiction) hanno smesso di rappresentare forme di alterità – secondo il luogo comune romantico che intende l’immaginazione come facoltà di differenziazione, di creazione distanziante, potenza creativa di anticipazione utopica – per diventare il nuovo punto chiave dei processi di valorizzazione...” (Carmagnola, 2006; 5)
Se immaginiamo infatti di ragionare nei termini di una economia politica potremo infatti seguire la linea di ragionamento che a partire da Baudrillard prosegue poi in Lyotard e Bordieu, ovvero della definizione di un’economia dei beni simbolici.
“...Come può l’emozione voluttuosa essere soltanto l’oggetto di una mercantilizzazione e diventare, nella nostra epoca di industrializzazione o oltranza, un fattore economico? [...] Può darsi allora che le forme dell’emozione voluttuosa rivelino una connessione [...] con il fenomeno antropomorfo dell’economia e degli scambi...”
Questo si riconnette con la nostra idea di avere un concetto esteso di bene culturale.
Occorre a nostro parere partire dal riconoscimento di una un processo di storicizzazione delle attività di riconoscimento, conservazione e valorizzazione dei beni culturali.
Se guardiamo a quello che Appandurai dice:
“...La nuova economia culturale globale deve essere compresa come un ordine complesso, sovrastante, disgiuntivo [...]. Un quadro di riferimento elementare per esplorare queste disgiunzioni elementare per esplorare queste disgiunzioni potrebbe consistere nell’osservare la relazione tra cinque dimensioni del flusso globale che possono essere chiamate: a) ethnoscapes; b) mediascapes; c) technoscapes; d) finanscapes; e) ideoscapes [...] Questi panorami sono le fondamenta di quelli che [...] mi piacerebbe chiamare “mondi immaginari”, cioè mondi multipli che sono costituiti dalle immaginazioni storicamente situate di persone e di gruppi sparsi intorno al globo [...] forme fluide, irregolari [...] forme che caratterizzano il capitale internazionale con la stessa profondità con cui condizionano gli stili di abbigliamento internazionali...” [Appandurai, in Featherstone, 1996: pp. 26-27; cit. in Carmagnola, 2006: p. 15]
A questo punto non resta che rianalizzare le chiavi di lettura che dovrebbero caratterizzare la visione della ricerca beni culturali e tentare di interpretarle alla luce di questa condizione finzionale .
Dobbiamo cioè considerare come dominante la dimensione dinamica dello scambio economia-cultura in cui le componenti materiali, statiche, tradizionali perdono progressivamente importanza e si trasformano in mera condizione di salvaguardia di un feticcio che contribuisce con la sua unicità a costruire la dimensione di unicità del dato culturale connesso.L’esperienza progettabile perciò è l’esperienza della fruizione simbolica (mediata e non) del consumo inteso in tutti i suoi aspetti. Della ricerca delle connessioni e delle modalità con cui essa si relaziona più in generale alla questione del cambiamento del tempo e delle modalità di vita e lavoro delle persone nell’epoca della globalizzazione, nella società del leisure time.
“...E’ in ottica di sistema-prodotto (coesistenza tra prodotto, comunicazione e servizio) che il design può agire nel campo dei beni culturali promuovendo differenti tipologie di esperienza per l’utente, e attivare pertanto ambiti di progetto adeguati a rispondere alle esigenze di un consumatore sempre più aggiornato, colto e abituato ad un’offerta ormai personalizzata e con uno standard di qualità elevato.
Il tema dei beni culturali è infatti strettamente legato al concetto di tempo libero in quanto la loro fruizione è in gran parte riferita alle attività turistiche. Il legame tra beni culturali e attività turistiche è ancor di più rafforzato dal termine “turismo culturale”, declinazione per cui è possibile individuare determinate categorie di utenti e identificare un settore economico specifico...” [Villari]
Il tema della partecipazione da parte degli utenti non si risolve quindi solamente immaginando il ruolo di attore attivo nel processo ma anche immaginando che è l’utente stesso con le sue condizioni di vita in generale modificate che costituisce a monte la questione della esperienza del bene culturale proposta da Villari. Occorre dunque ripartire a mio avviso anche da una comprensione.. dell’economia politica del segno... per dirla con Baudrillard.Ovvero non si può fare buon progetto se non costruiamo una visione critica pregnante e una idea filosofica del cambiamento riguardante la merce cultura. Solo così la nostra visione potrà essere realmente strategica.
Bibliografia.
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