30 September 2006

Domande slow

E’ l’ economia politica baby…
Alcune domande per Carlo Petrini (e il movimento SLOW)

Leggendo il position paper del convegno SLOW+Design mi è venuto in mente subito un delizioso passo che Manuel Vasquez Montalban, scrittore, gastrosofo e critico politico militante ha dedicato a Carlo Petrini e a SLOW FOOD nel primo volume della sua ultima opera Millennio[1].
Montalban inscena un incontro tra il suo eroe e arciconosciuto personaggio Carvalho (accompagnato dal fido aiutante-scudiero e alterego filosofico Biscuter), impegnato in un viaggio ultimo, estremo, esistenziale, picaresco (modellato quasi sull’idea di un Quixote contemporaneo) e Carlo Petrini e l’esperienza di SLOW FOOD in un ristorante romano, Cecchino.

“…in fondo, in uno spazio delimitato, qualcosa che somigliava a una celebrazione con applausi e oratori, presieduta da cinque insegne con applausi e oratori, presieduta da cinque insegne _ Arcigola, Slow Food, Il lardo di Colonnata, Vacca Chianina e Biodiversità _ che gli sembrarono enigmatiche ma suggestive…”[2]

Biscuter informa Carvalho sulla natura dell’incontro:

“…Si tratta di una setta di gastrosofi, così mi ha detto un cameriere, nata nella sinistra italiana, soprattutto nel Pci, che è diventato un importante movimento riformatore a protezione del gusto delle diversità autoctone di fronte alle normative imperscrutabili del mercato Comune. Si trovano nella fase di difesa di un qualcosa che chiamano biodiversità (i corsivi sono miei; ndr)…”[3]

In questo passaggio possiamo da subito individuare alcune parole chiave che evidenziano alcuni nodi critici che ci raccontano quello che SLOW (inteso come esperienza, movimento..) è stato:

1. primo una cellula ovvero un piccolo gruppo militante, poi l’aggettivo gastrosofi, ovvero persone che hanno unito una visione sull’arte gastronomica a una weltanschaung filosofica sull’uomo, il suo rapporto con mondo e i prodotti risultato del suo lavoro;

2. secondo, l’aggettivo riformatore ovvero l’idea di un cambiamento che matura a seguito di un approccio politico (nel senso dell’azione) democratico e riformista, dialogico;

3. terzo, si arriva poi a protezione del gusto (ma anche delle pratiche e degli operatori del gusto, ovvero il mondo contadino e le sue tradizioni) di fronte a un astratto, capitalisticamente burocratico (e spesso insensato e prevaricante) concetto di Mercato Comune;

4. quarto, si arriva infine a definire infine uno degli scenari attuali (e mondializzanti) in cui in movimento in evoluzione si sta cimentando ovvero la difesa della biodiversità.

Nel libro poi lo stesso Carlo Petrini, personaggio che interpreta se stesso, prende la parola:

“…cari amici, soltanto noi possiamo non sorprenderci di aver reso possibile quest’incontro, e compiere così un nuovo passo in difesa del nostro miglior grasso animale storico, il lardo di Colonnata, e della varietà della vacca chinina, uno dei molti passi che porteranno al Salone del Gusto di Torino. Evidentemente, le rivendicazioni sono tollerate come movimenti sociali e come fronti di opinione, ma possono prosperare soltanto se spalleggiate da un ampio fronte sociale. Sotto le dittature fasciste, i democratici difesero maremme e piantagioni, abitazioni umane e tane di animali, diritti di quartiere e diritti umani pensando di ricostruire la ragione democratica. Ma anche nella democrazia la battaglia ha un senso, perché esiste una nuova dittatura: quella del mercato come elemento intelligente protetto da una banda di politici somari…”[4].

Montalban coglie attraverso le parole di questo suo romanzo (del 2004) gli aspetti essenziali di SLOW FOOD, fotografando in pieno quella che a mio avviso è stata (ed è tuttora in corso) la transizione culturale di questo movimento.
Potremmo infatti dire che la perdita, l’ellissi della parola FOOD che dà il titolo a questo convegno, era già presente, in nuce, nella prospettiva strategica coerente che legava il primo SLOW FOOD con il movimento complesso, ambizioso e cosmopolita che opera oggi.Questo passaggio delicato è centrale, dal mio punto di vista, sia per i protagonisti di questa storia che per il tema dibattuto in questo convegno: questa perdita del sostantivo FOOD sottolinea il passaggio concettuale che occorre fare in termini di obiettivi progettuali da una visione che lega il concetto di SLOW invece che a una estetica ed a una economia libidinale a una idea che si caratterizza per una dimensione di economia politica[5].
La questione è infatti a mio parere legata alla scelta di operare progettualmente sulla realtà delle visioni, delle strategie dei prodotti e dei servizi che ci circondano: trasferendo qualità e valori dello SLOW ad uno schema più generale in grado di impattare i rapporti tra memoria e cultura, immaginario dei desideri e bisogni contemporanei, modi della produzione e del consumo.
L’idea infatti di costruire reti, prima di tutto di significato, ma poi anche organizzative e d’azione ovvero collegare produttori, luoghi della produzione, prodotti e consumo rappresenta infatti una tesi forte che travalica la pura e semplice riflessione sul campo del progetto e deve quindi estendersi fino a comprendere in questo grande quadro concettuale un framework, una cornice di senso che appartiene al campo dell’economia politica.
La visione SLOW infatti comprende (anche se non le dichiara esplicitamente) una serie di condizioni concrete che concorrono a definire un nuovo orizzonte politico (nel senso proprio del termine politica ovvero di azione che mira a realizzare un obiettivo):
C’è dietro SLOW l’idea di un nuovo umanesimo che è ben testimoniato dalle parole del personaggio-Petrini

“…Darwin spiegò la faccenda della selezione della specie e oggi si parla di darwinismo di sinistra e darwinismo di destra, a seconda di come si interpreti l’apporto scientifico di fronte alla versione religiosa della dialettica della vita o in quanto alibi per giustificare la vittoria del forte sul debole ritenendola inevitabile. Sta di fatto che, in quella parte del globo terracqueo che solitamente abitiamo noi lettori e scrittori di Slow Food, tale selezione è condizionata dalla logica interna biologica di ciascuna specie e dalla logica di mercato, e soltanto l’intelligenza umana condizionata dalla curiosità o dalla compassione può contrapporsi a tale fatalità. Davanti alla speculazione immobiliare o industriale bisogna salvare un bosco o un fiume, e davanti al gioco di vita o morte della specie bisogna talvolta salvaguardare la sopravvivenza di alcune di esse particolarmente minacciate per via della loro stessa fragilità o del mercato di tutte le vanità, da quella scientifica a quella alimentare. Noi italiani dobbiamo essere gli europei più impegnati ad approfondire il campo della conoscenza alimentare, e al di là della benedetta gastronomia o del sapere meramente erudito sui vini e sui cavolfiori, abbiamo considerato la conoscenza di quanto c’è di commestibile come parte importantissima della cosiddetta cultura materiale. […] Militanti nel fronte opposto a quello del fast food, noi seguaci di Slow Food ci siamo sviluppati senza interruzioni fino a comporre un fronte interventista a proposito di qualsiasi livello ed elemento potenzialmente alimentare. Senza perdere di vista il fatto che bisogna insegnare a mangiare a chi non sa farlo. Slow Food è una scommessa sul sapere come fattore principale di condizionamento della necessità alimentare. Salvare la specie non è solo un esercizio ludico o un’operazione narcisistica di rispetto nei confronti della propria memoria del palato, ma anche una filosofia di vita, perché conservare la sopravvivenza di una specie contribuisce alla cultura della vita nella sua totalità…”[6].

L’idea geniale di collegare cultura alimentare, cultura materiale e cultura politica rappresenta il primo passo per immaginare che il libidinale inteso alla Lyotard divenga anche politico.
La questione nasce dal contrasto che esiste tra due anime della società contemporanea: una SLOW e una tendenzialmente FAST, contrapposta, che invece sta progressivamente entrando nella dimensione del consumo. Questa parte FAST è ben analizzata nel provocatorio pamphlet di Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi[7] La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, la cui tesi principale è che stiamo assistendo a una rivoluzione democratica dei fenomeni di consumo basata su un’offerta low cost che ha come protagonisti alcuni grandi marchi mondiali.
Questa rivoluzione, cambiando la possibilità di accesso ai beni e ai servizi ha di fatto cambiato l’idea della possibilità di confronto tra un sistema governato da regole e modelli slow e l’idea invece di un sistema governato da regole fast, globalizzanti.
In questa frizione la scomparsa più dolorosa appunto è quella del ceto medio ovvero di quella classe sociale, economica e culturale che è stata motore di tutti i cambiamenti economico-politico-sociali-culturali del XX° secolo.

Questa frizione genera anche la comparsa di quello che i due autori definiscono come neoconsumatore low cost (e questo avviene certamente in Europa, Giappone e negli Stati Uniti ma anche nei nuovi grandi paesi emergenti come Cina, India, Brasile, Turchia… ) che sostituisce, polarizzandone gli estremi (i supericchi e i nuovi poveri), quella che era la classe di mezzo borghese.
La vecchia classe media possedeva una sua caratteristica cultura e propensione al consumo ed aveva inoltrre sviluppato una modalità di scelta dei beni e dei servizi legata ad un modello culturale condiviso: oggi questo modello deve essere ripensato ed aggiornato per far fronte a questi nuovi scenari dell’offerta di beni/servizi.

Al contrario il “…Il cliente <> è nomadico nel senso che è facilmente disponibile a cambiare fornitore se e quando ne può trarre convenienza, interessato soprattutto a ripartire sul maggior numero possibile di beni e servizi il reddito che ha a disposizione per i propri acquisti. E’ un consumatore interessato quasi esclusivamente al binomio prezzo-praticità di consumo, cioè un binomio totalmente originale rispetto alle motivazioni che spingevano all’acquisto la classe media: la possibilità di poter utilizzare il bene come elemento di affermazione della propria appartenenza di classe (che è cosa diversa dalle borse >>griffate>> o dai telefonini di ultimissima generazione usati come <>, soprattutto tra i ragazzi). Non capire la logica di consumo delle società della massa può significare il rapido declino dei profitti aziendali e anche l’uscita di scena dal mercato. Anche perché l’innovazione tecnologica aggiorna e aumenta continuamente le possibilità di offrire servizi originali ai consumatori <>…”[8]

La presenza di questa nuova grande classe di consumatori (che preferiremmo chiamare utenti) di beni e servizi rappresenta quindi allo stesso tempo un’opportunità e una minaccia.
Una minaccia perché dal punto di vista dell’equilibrio dei consumi su scala globale non ci pare possibile immaginare di non coinvolgere questi nuovi possibili entranti all’interno di una logica SLOW.
Il considerarli non coinvolgibili…significherebbe abdicare all’idea che la visione SLOW possa effettivamente produrre cambiamenti di grande scala.
Un’opportunità perché l’idea del “low cost” può essere un’occasione per riflettere su quelle che devono essere le caratteristiche dell’offerta di beni e servizi nei nuovi grandi mercati in espansione.
Si tratta di capire se la democratizzazione del binomio bene/prestazione può essere solo usato per allargare la base del consumo o anche per qualificarla: ovvero se LOW può divenire (S)LOW.
Dobbiamo arrivare quindi, per concludere il nostro breve interevento di stimolo, a definire, come se si trattasse di una orizzonte strategico di progetto, il posizionamento (un brutto termine preso dal linguaggio del marketing) dell’azione SLOW.
Solo una scelta più chiara in questo senso può, a mio parere, aiutare a chiarificare quella che è la proposta di economia politica complessiva che il movimento SLOW intende fare ora: un posizionamento che deve riguardare valori, consumo, meccanismi economici, organizzazione, visione, competenze e alla fine si deve tradurre in progetto.
Coniugare democrazia dell’accesso ai beni e servizi e qualità SLOW: questa a mio parere la sfida da affrontare.

[1] Manuel Vasquez Montalban. Milenio. Carvalho. I. Rumbo a Kabul, trad. it. Millennio. 1. Pepe Carvalho sulla via di Kabul, Feltrinelli, Milano, 2004
[2] Manuel Vasquez Montalban, op. cit., p.24
[3] Ibidem, p.24
[4] Ibidem, pp.24-25
[5] Che si può declinare certamente anch’essa in una nuova visione estetica
[
6] Ibidem, p. 25
[7] Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, 2006
[8] Op. cit., p. 48

Verso un'economia finzionale

VERSO UN’ECONOMIA FINZIONALE. IL DESIGN DI FRONTE ALLA CULTURA (IM)MATERIALE CONTEMPORANEA

1. La produzione e il consumo del simbolico
I processi di cambiamento del contesto originario in cui cultura e bene culturale vengono prodotti costituiscono a mio parere il punto di partenza per immaginare una discussione centrata sul tema della valorizzazione dei beni culturali. Non possiamo infatti a mio parere parlare di design, ovvero di intervento progettuale in questo campo se, oltre a considerare una visione classica e definitoria del concetto di bene culturale, non avanziamo nella direzione di una comprensione dei meccanismi di trasformazione epocale delle loro regole di produzione. Mia intenzione è deliberatamente quella di provocare un dibattito, nel senso di immaginare l’esposizione e la discussione di una tesi provocativa che spinga la riflessione disciplinare al di là delle semplici considerazioni di campo operativo. Il problema si pone a mio avviso nella dimensione originaria della relazione tra cultura e merce. In questo senso la realizzazione della saldatura completa tra questi due termini rappresenta proprio la tesi fondamentale di questo contributo. A mio parere infatti sia le forme alte sia le forme basse di produzione di cultura e merce realizzano uno spiazzamento di quello che è l’approccio tradizionale usato anche dalla disciplina. L’annullamento di queste differenze corrisponde anche infatti all’annullamento (o meglio al cambiamento) che è necessario operare all’interno dei campi dell’educazione, del progetto, della valorizzazione e del consumo dei beni culturali. La caduta contemporanea dei confini tra molte discipline canoniche (arte, architettura, scrittura, design tradizionale..) e quelle che potremo definire come nuove (comunicazione, web...) crea uno spazio d’azione fluido, liquido se lo dicessimo alla Bauman, in cui occorre di nuovo capire il ruolo della nostra disciplina. Al contrario dell’intenzionalità della ricerca, che cerca di costruire sin dalla proposta iniziale una piattaforma di obiettivi come: “...definire l’apporto specifico che il sistema di competenze professionali inerenti la materia del design (pratiche e conoscenze codificate) può offrire al patrimonio dei beni culturali per individuare strategie, metodologie e strumenti di progetto in grado di concorrere alla loro valorizzazione e promozione e di aumentarne i fattori di fruibilità...”, la mia proposta si muove invece dall’idea di sviluppare in questo saggio un tentativo di comprensione generale di come le dinamiche di produzione e consumo di cultura e merce definiscano un nuovo campo di analisi fenomenologica che va sotto il nome di economia finzionale. Come sostiene Appandurai:

“...la teoria implicita in questo libro ( Modernità in polvere, ndr.) identifica nella comunicazione di massa e nella migrazione i due principali e interconnessi elementi diacritici, e studia il loro effetto combinato sull’opera dell’immaginazione in quanto tratto costitutivo dell’identità moderna...” [Appandurai, 2001; p. 22]

L’idea di ragionare della costruzione di un campo globale del simbolico , diviene (sulla scorta di quanto affermato da Bourdieu e ripreso da Carmagnola) il fuoco di una rappresentazione tangibile del sociale, degli attori, dei loro valori e stili di vita, che abilita una pratica in cui queste materializzazioni del simbolico possono essere distribuite e proposte per un consumo alla scala globale.

Come sostiene Falk infatti la produzione di massa (assieme alla crescita degli strumenti della comunicazione)

“...rende possibile il consumo imitativo di rappresentazioni materializzate. Attraverso il consumo [...] il consumatore si auto-identifica con lo status, il lifestyle o l’identità sociale che l’oggetto rappresenta e sintetizza...” [Falk, 1997: p. 121; cit. in Carmagnola, 2006: p. 14]

Carmagnola concorda con questa visione affermando che: “..il simbolo si materializza in merce, la merce si spiritualizza o si smaterializza in simbolo...”.

Il risultato di questa affermazione è che possiamo considerare il processo di creazione, trasformazione e diffusione del simbolico come integralmente annesso alla sfera del capitale culturale. Le conseguenze per il nostro campo d’analisi sono presto dette: accettando di valutare un approccio d’analisi siffatto e accettando anche l’ipotesi territoriale di Rullani secondo cui (Rullani, 2004), come sostiene Villari

“...sono i valori, le tradizioni, le memorie, il fascino è ciò che in maniera intangibile accresce il valore (in sé e percepito) del bene culturale. L’intangibilità non è però sinonimo di evanescenza, ma è fattore rappresentativo di ciò che, citando Rullani, può essere definito come un “sistema organizzato” in grado di produrre “emozioni, partecipazione, felicità” attraverso artefatti in grado di essere “riconoscibili, suggestivi, ricchi di qualità emotive e comunitarie”...” ci renderemo subito conto che la questione che la commistione tra produzione/consumo di questo capitale culturale diviene l’elemento centrale su cui il pensiero disciplinare deve esercitare un’attenzione particolare...”

avremo per D.Cult un tema di riflessione centrale.

Partendo dal presupposto che il processo di valorizzazione dei beni culturali sia strettamente correlato a quello dell’esperienza dell’utente, dovremo quindi comprendere con chiarezza (per quanto possibile) la questione del consumo culturale e la questione, come direbbero Toffler o forse anche Vanni Codeluppi o Rifter, della prosumption.


2. Il bene culturale quale elemento dinamico. La dimensione dell’economia finzionale
Non possiamo dunque più immaginare di comprendere la relazione cultura-processi di valorizzazione-progetto se non ci soffermiamo un attimo su di una questione fondamentale: può il nostro paese riuscire ad attuare un processo integrato, avanzato, contemporaneo di consolidamento, protezione, valorizzazione di quello che è il proprio patrimonio di beni culturali se non mette a fuoco qual è la cornice fenomenologica è in cui questo processo è inserito?
Se non capisce insomma qual’è il DNA specifico che sovrintende a un possibile gesto di progetto che modifichi, trasformi questa realtà?
Viviamo o no in quella che Fulvio Carmagnola definisce come una fiction economy o economia finzionale?A nostro parere la risposta a questa domanda è positiva. Se partiamo nella nostra argomentazione da un’analisi delle caratteristiche dell’economia contemporanea vedremo che essa mescola cultura, conoscenza, arte e merce…
In essa le componenti materiali e immateriali, reali e virtuali, formano un nodo inestricabile che non è possibile separare con vecchi proclami realisti-materialisti.
Le cose _ed anche i cosiddetti beni culturali_ non esistono quindi solo in un senso di reale materiale.
Esistono anche in un circuito percettivo-simbolico-comunicativo in cui avviene un processo di trattamento e scambio che non è più solamente simbolico-interattivo ma anche certamente e pesantemente compreso in una dimensione economica, inestricabile dal resto. All’interno di uno spazio come questo si ridefinisce l’ipotesi di costruzione del valore (di nuovo economico e culturale).
La genealogia speculativa su questo tema proposta da Carmagnola si apre con un incipit profetico di Gillo Dorfles (Dorfles, 1965) :

“...E’ un errore continuare a credere che “arte” sia soltanto quella che si venera nei musei o nelle sale da concerto, mentre oggi l’arte [...] è proprio quella che viene diffusa dai mass-media e che viene prodotta dai sistemi industriali [...] è un errore non dare la dovuta importanza ad alcuni dei fattori dominanti nell’attuale situazione artistica come: la rapidità del consumo, l’obsolescenza, l’usura delle forme e delle immagini e il valore simbolico di tali forme...”

E’ quello che pensiamo anche noi: e che forse dovrebbero pensare tutti quelli che si avvicinano a un progetto che implica il cambiamento della componente simbolico-interattivo-economica-comunicativa di un bene culturale.
Se infatti immaginiamo il bene culturale con una chiave estrema, equiparandolo in tutto e per tutto a un sistema-prodotto, allora ci renderemo conto che gli aspetti interpretativi che sono invecchiati e devono certamente cambiare sono quelli che, nel processo classico di produzione di beni e servizi, definiscono la forma del prodotto e della sua relazione con l’utente e della sua mercificazione all’interno di un circuito della distribuzione. Insomma deve essere rianalizzata la componente legata ai processi di scambio relazionale, produttivo, sociale ed economico che guida la creazione di processi e prodotti legati al mondo dei beni culturali.

“...La componente immaginaria o finzionale dei prodotti è diventata una parte strutturale del loro valore economico, così come l’intelligenza sociale, o la mente sociale, è diventata una parte fondamentale del processo di produzione. Il risultato, dal punto di vista del prodotto, è una configurazione che definiamo merce immaginaria o finzionale. La rete della comuicazione globale, di cui tanto si parla, è l’ambiente attivo che permette sia i flussi globalizzati della produzione postfordista, sia quelli che trasportano le favole delle grandi brand multinazionali e che innervano le figure narrative del cinema, dei videogame, degli spot, dei videoclip e costituiscono il paesaggio che l’antropologo Arjun Appandurai ha definito “mediascape”...” (Carmagnola, 2006; 6)

In questo senso è importante immaginare che il ruolo del design come disciplina che sovrintende la relazione tra campo del materiale e campo del simbolico dovrà effettivamente occuparsi sia della forma e degli aspetti materiali dei processi di produzione dei beni culturali – campo usuale della disciplina – ma anche dei processi di comprensione delle logiche profonde che ne guidano le logiche di distribuzione.
Insomma quel che stiamo cercando di confutare è che discutere di statuto dei beni culturali significa affrontarne anche la questione in termini di costruzione di un modello interpretativo di economia politica.
Carmagnola, aggiornando la seminale ipotesi dorflesiana sostenuta in Simbolo, Comunicazione, Consumo sostiene che:

“...Quella facoltà creativa, da sempre attribuita all'immagine, oggi forse è destinata a lasciare il posto a un diverso impulso: quello appartenente a un'economia fondata sulla grande corrente massmediatica; sicché la dimensione estetica e quella economica finiscono per unificarsi, conferendo un valore «assiologico» —dunque non solo economico — a molti prodotti un tempo non considerati «artistici», ma altresì attribuendo all'arte «pura» una valenza economica già in partenza da prendere in considerazione. E, infatti, solo perché rivestiti da valori immaginativi e simbolici, spesso anche oggetti «anestetici», o addirittura «antiestetici», possono atteggiarsi a opere d'arte, e tante opere dei nostri tempi sono assunte nell'empireo estetico soltanto perché divenute fonte di valore economico e insieme di una componente simbolica...” (Dorfles, 2006)

Egli arriva quindi a definire un’ipotesi precisa per nominare il tipo di circuito simbolico-economico che nasce da questa condizione:

“...L’ipotesi [...] è che il simbolo e il simbolico, trasformati in immagine e immaginario, siano diventati la componente specificamente estetica che contribuisce al buon funzionamento dell’attuale economia. Potremmo di conseguenza definire l’economia attuale sia come immaginaria o finzionale.
Definisco economia finzionale come quella situazione nella quale i prodotti dell’immaginazione (fiction) hanno smesso di rappresentare forme di alterità – secondo il luogo comune romantico che intende l’immaginazione come facoltà di differenziazione, di creazione distanziante, potenza creativa di anticipazione utopica – per diventare il nuovo punto chiave dei processi di valorizzazione...” (Carmagnola, 2006; 5)

Se immaginiamo infatti di ragionare nei termini di una economia politica potremo infatti seguire la linea di ragionamento che a partire da Baudrillard prosegue poi in Lyotard e Bordieu, ovvero della definizione di un’economia dei beni simbolici.

“...Come può l’emozione voluttuosa essere soltanto l’oggetto di una mercantilizzazione e diventare, nella nostra epoca di industrializzazione o oltranza, un fattore economico? [...] Può darsi allora che le forme dell’emozione voluttuosa rivelino una connessione [...] con il fenomeno antropomorfo dell’economia e degli scambi...”

Questo si riconnette con la nostra idea di avere un concetto esteso di bene culturale.
Occorre a nostro parere partire dal riconoscimento di una un processo di storicizzazione delle attività di riconoscimento, conservazione e valorizzazione dei beni culturali.

Se guardiamo a quello che Appandurai dice:

“...La nuova economia culturale globale deve essere compresa come un ordine complesso, sovrastante, disgiuntivo [...]. Un quadro di riferimento elementare per esplorare queste disgiunzioni elementare per esplorare queste disgiunzioni potrebbe consistere nell’osservare la relazione tra cinque dimensioni del flusso globale che possono essere chiamate: a) ethnoscapes; b) mediascapes; c) technoscapes; d) finanscapes; e) ideoscapes [...] Questi panorami sono le fondamenta di quelli che [...] mi piacerebbe chiamare “mondi immaginari”, cioè mondi multipli che sono costituiti dalle immaginazioni storicamente situate di persone e di gruppi sparsi intorno al globo [...] forme fluide, irregolari [...] forme che caratterizzano il capitale internazionale con la stessa profondità con cui condizionano gli stili di abbigliamento internazionali...” [Appandurai, in Featherstone, 1996: pp. 26-27; cit. in Carmagnola, 2006: p. 15]

A questo punto non resta che rianalizzare le chiavi di lettura che dovrebbero caratterizzare la visione della ricerca beni culturali e tentare di interpretarle alla luce di questa condizione finzionale .
Dobbiamo cioè considerare come dominante la dimensione dinamica dello scambio economia-cultura in cui le componenti materiali, statiche, tradizionali perdono progressivamente importanza e si trasformano in mera condizione di salvaguardia di un feticcio che contribuisce con la sua unicità a costruire la dimensione di unicità del dato culturale connesso.L’esperienza progettabile perciò è l’esperienza della fruizione simbolica (mediata e non) del consumo inteso in tutti i suoi aspetti. Della ricerca delle connessioni e delle modalità con cui essa si relaziona più in generale alla questione del cambiamento del tempo e delle modalità di vita e lavoro delle persone nell’epoca della globalizzazione, nella società del leisure time.

“...E’ in ottica di sistema-prodotto (coesistenza tra prodotto, comunicazione e servizio) che il design può agire nel campo dei beni culturali promuovendo differenti tipologie di esperienza per l’utente, e attivare pertanto ambiti di progetto adeguati a rispondere alle esigenze di un consumatore sempre più aggiornato, colto e abituato ad un’offerta ormai personalizzata e con uno standard di qualità elevato.
Il tema dei beni culturali è infatti strettamente legato al concetto di tempo libero in quanto la loro fruizione è in gran parte riferita alle attività turistiche. Il legame tra beni culturali e attività turistiche è ancor di più rafforzato dal termine “turismo culturale”, declinazione per cui è possibile individuare determinate categorie di utenti e identificare un settore economico specifico...” [Villari]

Il tema della partecipazione da parte degli utenti non si risolve quindi solamente immaginando il ruolo di attore attivo nel processo ma anche immaginando che è l’utente stesso con le sue condizioni di vita in generale modificate che costituisce a monte la questione della esperienza del bene culturale proposta da Villari. Occorre dunque ripartire a mio avviso anche da una comprensione.. dell’economia politica del segno... per dirla con Baudrillard.Ovvero non si può fare buon progetto se non costruiamo una visione critica pregnante e una idea filosofica del cambiamento riguardante la merce cultura. Solo così la nostra visione potrà essere realmente strategica.

Bibliografia.

Appandurai A., Modernità in polvere, Meltemi, Napoli, 2001
Augè M., Colleyn J.P., L’antropologia del mondo contemporaneo, Eleuthera, 2006
Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002
Bourdieu, P., e Wacquant, L.J.D., Per un’antropologia riflessiva, Boringhieri, Torino, 1992
Codeluppi, V., Il potere del consumo. Viaggio nei processi di mercificazione della società, Boringhieri, Torino, 2003
Dorfles G., Economia ed arte, nuove Sorelle, in “CORRIERE DELLA SERA”, 04.06.2006
Dorfles G., Simbolo, comunicazione, consumo, Einaudi, To, I riediz., 1980
Dorfles G., Il consumo delle immagini e la comunicazione artistica, 1965
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Featherstone M. (a cura di), Cultura globale. Nazionalismo, globalizzazione e modernità, SEAM, Roma, 1996
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Lutter C., Reisenleitner M., Cultural studies. Un’introduzione, Bruno Mondadori, Milano, 2004
Pine J.B., Gilmore J. H., L' economia delle esperienze. Oltre il servizio, Etas, 2000
Rifter, G., L’era dell’iperconsumo. mcDonaldizzazione, carte di credito, luoghi del consumo e altri temi, Franco Angeli, Milano, 2003
Rullani E., La fabbrica dell'immateriale. Produrre valore con la conoscenza, Carocci, 2004
Toffler, A., The Third Wave, Pan Books, London, 1981

29 September 2006

Back on the chain gang...

Rientrare..dopo una lunga vacanza è un po' come morire e poi rinascere.
Prima le cose, dense, circondano la tua mente. Lavoro, relazioni, ritmi, orari.
TUtto questo ti fa male...ti intossica. E avanzi stravolto nelle mattine che non sono più quiete, rilassate.
Fino a che dal blob fangoso dei tuoi impegni quotidiani..emerge come subumano essere dotato di volontà..il golem del tuo progetto. Della tua direzione. Di chi sei. Di cosa vuoi. E il ricordo dell'acqua cristallina, del sole viene cancellato.
Siamo tutti bestie da città con fuoriprogramma turistico incorporato.
La vera vita ..non va in vacanza.