30 September 2006

Domande slow

E’ l’ economia politica baby…
Alcune domande per Carlo Petrini (e il movimento SLOW)

Leggendo il position paper del convegno SLOW+Design mi è venuto in mente subito un delizioso passo che Manuel Vasquez Montalban, scrittore, gastrosofo e critico politico militante ha dedicato a Carlo Petrini e a SLOW FOOD nel primo volume della sua ultima opera Millennio[1].
Montalban inscena un incontro tra il suo eroe e arciconosciuto personaggio Carvalho (accompagnato dal fido aiutante-scudiero e alterego filosofico Biscuter), impegnato in un viaggio ultimo, estremo, esistenziale, picaresco (modellato quasi sull’idea di un Quixote contemporaneo) e Carlo Petrini e l’esperienza di SLOW FOOD in un ristorante romano, Cecchino.

“…in fondo, in uno spazio delimitato, qualcosa che somigliava a una celebrazione con applausi e oratori, presieduta da cinque insegne con applausi e oratori, presieduta da cinque insegne _ Arcigola, Slow Food, Il lardo di Colonnata, Vacca Chianina e Biodiversità _ che gli sembrarono enigmatiche ma suggestive…”[2]

Biscuter informa Carvalho sulla natura dell’incontro:

“…Si tratta di una setta di gastrosofi, così mi ha detto un cameriere, nata nella sinistra italiana, soprattutto nel Pci, che è diventato un importante movimento riformatore a protezione del gusto delle diversità autoctone di fronte alle normative imperscrutabili del mercato Comune. Si trovano nella fase di difesa di un qualcosa che chiamano biodiversità (i corsivi sono miei; ndr)…”[3]

In questo passaggio possiamo da subito individuare alcune parole chiave che evidenziano alcuni nodi critici che ci raccontano quello che SLOW (inteso come esperienza, movimento..) è stato:

1. primo una cellula ovvero un piccolo gruppo militante, poi l’aggettivo gastrosofi, ovvero persone che hanno unito una visione sull’arte gastronomica a una weltanschaung filosofica sull’uomo, il suo rapporto con mondo e i prodotti risultato del suo lavoro;

2. secondo, l’aggettivo riformatore ovvero l’idea di un cambiamento che matura a seguito di un approccio politico (nel senso dell’azione) democratico e riformista, dialogico;

3. terzo, si arriva poi a protezione del gusto (ma anche delle pratiche e degli operatori del gusto, ovvero il mondo contadino e le sue tradizioni) di fronte a un astratto, capitalisticamente burocratico (e spesso insensato e prevaricante) concetto di Mercato Comune;

4. quarto, si arriva infine a definire infine uno degli scenari attuali (e mondializzanti) in cui in movimento in evoluzione si sta cimentando ovvero la difesa della biodiversità.

Nel libro poi lo stesso Carlo Petrini, personaggio che interpreta se stesso, prende la parola:

“…cari amici, soltanto noi possiamo non sorprenderci di aver reso possibile quest’incontro, e compiere così un nuovo passo in difesa del nostro miglior grasso animale storico, il lardo di Colonnata, e della varietà della vacca chinina, uno dei molti passi che porteranno al Salone del Gusto di Torino. Evidentemente, le rivendicazioni sono tollerate come movimenti sociali e come fronti di opinione, ma possono prosperare soltanto se spalleggiate da un ampio fronte sociale. Sotto le dittature fasciste, i democratici difesero maremme e piantagioni, abitazioni umane e tane di animali, diritti di quartiere e diritti umani pensando di ricostruire la ragione democratica. Ma anche nella democrazia la battaglia ha un senso, perché esiste una nuova dittatura: quella del mercato come elemento intelligente protetto da una banda di politici somari…”[4].

Montalban coglie attraverso le parole di questo suo romanzo (del 2004) gli aspetti essenziali di SLOW FOOD, fotografando in pieno quella che a mio avviso è stata (ed è tuttora in corso) la transizione culturale di questo movimento.
Potremmo infatti dire che la perdita, l’ellissi della parola FOOD che dà il titolo a questo convegno, era già presente, in nuce, nella prospettiva strategica coerente che legava il primo SLOW FOOD con il movimento complesso, ambizioso e cosmopolita che opera oggi.Questo passaggio delicato è centrale, dal mio punto di vista, sia per i protagonisti di questa storia che per il tema dibattuto in questo convegno: questa perdita del sostantivo FOOD sottolinea il passaggio concettuale che occorre fare in termini di obiettivi progettuali da una visione che lega il concetto di SLOW invece che a una estetica ed a una economia libidinale a una idea che si caratterizza per una dimensione di economia politica[5].
La questione è infatti a mio parere legata alla scelta di operare progettualmente sulla realtà delle visioni, delle strategie dei prodotti e dei servizi che ci circondano: trasferendo qualità e valori dello SLOW ad uno schema più generale in grado di impattare i rapporti tra memoria e cultura, immaginario dei desideri e bisogni contemporanei, modi della produzione e del consumo.
L’idea infatti di costruire reti, prima di tutto di significato, ma poi anche organizzative e d’azione ovvero collegare produttori, luoghi della produzione, prodotti e consumo rappresenta infatti una tesi forte che travalica la pura e semplice riflessione sul campo del progetto e deve quindi estendersi fino a comprendere in questo grande quadro concettuale un framework, una cornice di senso che appartiene al campo dell’economia politica.
La visione SLOW infatti comprende (anche se non le dichiara esplicitamente) una serie di condizioni concrete che concorrono a definire un nuovo orizzonte politico (nel senso proprio del termine politica ovvero di azione che mira a realizzare un obiettivo):
C’è dietro SLOW l’idea di un nuovo umanesimo che è ben testimoniato dalle parole del personaggio-Petrini

“…Darwin spiegò la faccenda della selezione della specie e oggi si parla di darwinismo di sinistra e darwinismo di destra, a seconda di come si interpreti l’apporto scientifico di fronte alla versione religiosa della dialettica della vita o in quanto alibi per giustificare la vittoria del forte sul debole ritenendola inevitabile. Sta di fatto che, in quella parte del globo terracqueo che solitamente abitiamo noi lettori e scrittori di Slow Food, tale selezione è condizionata dalla logica interna biologica di ciascuna specie e dalla logica di mercato, e soltanto l’intelligenza umana condizionata dalla curiosità o dalla compassione può contrapporsi a tale fatalità. Davanti alla speculazione immobiliare o industriale bisogna salvare un bosco o un fiume, e davanti al gioco di vita o morte della specie bisogna talvolta salvaguardare la sopravvivenza di alcune di esse particolarmente minacciate per via della loro stessa fragilità o del mercato di tutte le vanità, da quella scientifica a quella alimentare. Noi italiani dobbiamo essere gli europei più impegnati ad approfondire il campo della conoscenza alimentare, e al di là della benedetta gastronomia o del sapere meramente erudito sui vini e sui cavolfiori, abbiamo considerato la conoscenza di quanto c’è di commestibile come parte importantissima della cosiddetta cultura materiale. […] Militanti nel fronte opposto a quello del fast food, noi seguaci di Slow Food ci siamo sviluppati senza interruzioni fino a comporre un fronte interventista a proposito di qualsiasi livello ed elemento potenzialmente alimentare. Senza perdere di vista il fatto che bisogna insegnare a mangiare a chi non sa farlo. Slow Food è una scommessa sul sapere come fattore principale di condizionamento della necessità alimentare. Salvare la specie non è solo un esercizio ludico o un’operazione narcisistica di rispetto nei confronti della propria memoria del palato, ma anche una filosofia di vita, perché conservare la sopravvivenza di una specie contribuisce alla cultura della vita nella sua totalità…”[6].

L’idea geniale di collegare cultura alimentare, cultura materiale e cultura politica rappresenta il primo passo per immaginare che il libidinale inteso alla Lyotard divenga anche politico.
La questione nasce dal contrasto che esiste tra due anime della società contemporanea: una SLOW e una tendenzialmente FAST, contrapposta, che invece sta progressivamente entrando nella dimensione del consumo. Questa parte FAST è ben analizzata nel provocatorio pamphlet di Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi[7] La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, la cui tesi principale è che stiamo assistendo a una rivoluzione democratica dei fenomeni di consumo basata su un’offerta low cost che ha come protagonisti alcuni grandi marchi mondiali.
Questa rivoluzione, cambiando la possibilità di accesso ai beni e ai servizi ha di fatto cambiato l’idea della possibilità di confronto tra un sistema governato da regole e modelli slow e l’idea invece di un sistema governato da regole fast, globalizzanti.
In questa frizione la scomparsa più dolorosa appunto è quella del ceto medio ovvero di quella classe sociale, economica e culturale che è stata motore di tutti i cambiamenti economico-politico-sociali-culturali del XX° secolo.

Questa frizione genera anche la comparsa di quello che i due autori definiscono come neoconsumatore low cost (e questo avviene certamente in Europa, Giappone e negli Stati Uniti ma anche nei nuovi grandi paesi emergenti come Cina, India, Brasile, Turchia… ) che sostituisce, polarizzandone gli estremi (i supericchi e i nuovi poveri), quella che era la classe di mezzo borghese.
La vecchia classe media possedeva una sua caratteristica cultura e propensione al consumo ed aveva inoltrre sviluppato una modalità di scelta dei beni e dei servizi legata ad un modello culturale condiviso: oggi questo modello deve essere ripensato ed aggiornato per far fronte a questi nuovi scenari dell’offerta di beni/servizi.

Al contrario il “…Il cliente <> è nomadico nel senso che è facilmente disponibile a cambiare fornitore se e quando ne può trarre convenienza, interessato soprattutto a ripartire sul maggior numero possibile di beni e servizi il reddito che ha a disposizione per i propri acquisti. E’ un consumatore interessato quasi esclusivamente al binomio prezzo-praticità di consumo, cioè un binomio totalmente originale rispetto alle motivazioni che spingevano all’acquisto la classe media: la possibilità di poter utilizzare il bene come elemento di affermazione della propria appartenenza di classe (che è cosa diversa dalle borse >>griffate>> o dai telefonini di ultimissima generazione usati come <>, soprattutto tra i ragazzi). Non capire la logica di consumo delle società della massa può significare il rapido declino dei profitti aziendali e anche l’uscita di scena dal mercato. Anche perché l’innovazione tecnologica aggiorna e aumenta continuamente le possibilità di offrire servizi originali ai consumatori <>…”[8]

La presenza di questa nuova grande classe di consumatori (che preferiremmo chiamare utenti) di beni e servizi rappresenta quindi allo stesso tempo un’opportunità e una minaccia.
Una minaccia perché dal punto di vista dell’equilibrio dei consumi su scala globale non ci pare possibile immaginare di non coinvolgere questi nuovi possibili entranti all’interno di una logica SLOW.
Il considerarli non coinvolgibili…significherebbe abdicare all’idea che la visione SLOW possa effettivamente produrre cambiamenti di grande scala.
Un’opportunità perché l’idea del “low cost” può essere un’occasione per riflettere su quelle che devono essere le caratteristiche dell’offerta di beni e servizi nei nuovi grandi mercati in espansione.
Si tratta di capire se la democratizzazione del binomio bene/prestazione può essere solo usato per allargare la base del consumo o anche per qualificarla: ovvero se LOW può divenire (S)LOW.
Dobbiamo arrivare quindi, per concludere il nostro breve interevento di stimolo, a definire, come se si trattasse di una orizzonte strategico di progetto, il posizionamento (un brutto termine preso dal linguaggio del marketing) dell’azione SLOW.
Solo una scelta più chiara in questo senso può, a mio parere, aiutare a chiarificare quella che è la proposta di economia politica complessiva che il movimento SLOW intende fare ora: un posizionamento che deve riguardare valori, consumo, meccanismi economici, organizzazione, visione, competenze e alla fine si deve tradurre in progetto.
Coniugare democrazia dell’accesso ai beni e servizi e qualità SLOW: questa a mio parere la sfida da affrontare.

[1] Manuel Vasquez Montalban. Milenio. Carvalho. I. Rumbo a Kabul, trad. it. Millennio. 1. Pepe Carvalho sulla via di Kabul, Feltrinelli, Milano, 2004
[2] Manuel Vasquez Montalban, op. cit., p.24
[3] Ibidem, p.24
[4] Ibidem, pp.24-25
[5] Che si può declinare certamente anch’essa in una nuova visione estetica
[
6] Ibidem, p. 25
[7] Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, Einaudi, 2006
[8] Op. cit., p. 48

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